La Russia annuncia lo stop alle forniture di elettricità a Helsinki
L’ombra di un veto della Turchia all’adesione della Finlandia e della Svezia alla Nato arriva come una doccia gelata a Bruxelles e smorza gli entusiasmi del blocco occidentale sull’allargamento a Est dell’Alleanza atlantica. “Stiamo seguendo attentamente gli sviluppi riguardanti Svezia e Finlandia, ma non siamo di parere favorevole”, ha detto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Dichiarazioni che non sono un no esplicito e lasciano ancora spazio alle trattative, che andranno avanti nel weekend nella ministeriale della Nato a Berlino. La Turchia, tra i membri più potenti dell’Alleanza, gioca un ruolo delicato, per il suo rapporto storico con Mosca, e non a caso è stata sede dei tentativi di negoziati tra le delegazioni ucraine e russe. Helsinki comincia però a pagare le conseguenze della sua scelta, con la sospensione della fornitura di elettricità a partire da domani annunciata dalla Russia e confermata dalla società finlandese erogatrice di corrente Fingrid, dopo che che il Cremlino aveva assicurato di non avere in programma di fermare le forniture di gas alla Finlandia. L’interruzione non preoccupa molto il paese nordico, secondo cui non c’è rischio che non ci sia energia elettrica sufficiente in Finlandia, che ultimamente importava dalla Russia circa il 10% del suo consumo totale.
Intanto, è atteso che il Partito socialdemocratico al governo in Svezia, guidato dalla premier Magdalena Andersson, riveli la sua decisione sulla Nato domenica. Oggi è stato presentato l’atteso report sui pro e i contro dell’adesione: i vantaggi per la Svezia sarebbero nettamente superiori, soprattutto per la sicurezza collettiva offerta dall’Alleanza. Ma potrebbero esserci delle rappresaglie da parte di Mosca, tra cui attacchi informatici e diversi tipi di attacchi ibridi, violazioni dello spazio aereo svedese o del mare di sua competenza territoriale. Il presidente Usa, Joe Biden, dopo un colloquio telefonico con Andersson e il presidente finlandese Sauli Niinistö, ha ribadito il loro diritto di scegliere la propria politica in materia di sicurezza.
A Bruxelles si continua invece a discutere sul sesto pacchetto di sanzioni, annunciato ormai dieci giorni fa. I contatti bilaterali proseguono a livello di capitali e leader Ue, tanto che la riunione degli ambasciatori di oggi non ha nemmeno affrontato il tema.
L’ipotesi circolata nelle ultime ore di spacchettare le misure accantonando l’embargo al petrolio, come richiesto dall’Ungheria, non sembra sul tavolo. Anche perché diverse fonti Ue fanno notare che va bene aver tolto il divieto di trasporto del greggio su navi europee, che ha infastidito gli Stati costieri, ma rimuovere anche lo stop al petrolio significherebbe snaturare il pacchetto privandolo della sua misura faro. Piuttosto si continua a trattare a oltranza, cercando di capire come garantire gli investimenti che Budapest dovrà affrontare per riconvertite i suoi impianti e le sue raffinerie e assicurargli la continuità di approvvigionamento anche con il futuro flusso da Ovest.
Ma forse la posta in gioco è più alta, anche politica, perché per l’Ungheria si tratterebbe di recidere il cordone ombelicale che la lega a Mosca. Se non si troverà la quadra prima di lunedì, il tema verrà portato a livello di Consiglio Ue Esteri a Bruxelles, dove l’Alto rappresentante Josep Borrell vorrebbe sferzare gli Stati a chiudere una partita che sta iniziando a imbarazzare l’Ue a livello internazionale, proprio mentre altri paesi come la Gran Bretagna stanno approvando nuove misure.
A salvare la faccia è l’annuncio fatto da Borrell alla ministeriale Esteri del G7 in Germania dello stanziamento di una quarta tranche da 500 milioni di euro per l’invio di armi all’Ucraina tramite lo European Peace Facility. Una misura che porterebbe a 2 miliardi il totale della somma stanziata dall’Ue in equipaggiamenti militari a Kiev. Il provvedimento dovrà essere approvato dai singoli Stati, con le rispettive procedure nazionali, compresi i passaggi parlamentari, ma, riferisce un funzionario Ue, c’è un consenso generale sul fatto che occorra continuare a supportare militarmente l’Ucraina fin quando sarà necessario.
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